mercoledì 26 gennaio 2011

Due notine d'argento: Mina, la moda, la musica e la TV italiana dei '60

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martedì 11 gennaio 2011

Nel guardaroba il lavoro che manca

(di Patrizia Calefato, pubblicato su "La Gazzetta del Mezzogiorno del 31/12/2010)


Marchionne potrà anche essere soddisfatto del contratto di Mirafiori siglato in barba a quarant’anni di unità sindacale e di diritti del lavoro in Italia, ma in tema di stile il suo minimale e sempre uguale maglione blu ha il fiato corto. In questi primi anni ’10, sono invece proprio le tute e gli abiti da lavoro indossati dai Cipputi di ogni parte del mondo a ispirare una moda di forte impatto che è stata battezzata con l’espressione inglese “workwear”, che vuol dire molto banalmente “abiti da lavoro”. Una moda che in realtà moda, in senso effimero e superficiale, non è, perché è costituita di abiti che non invecchiano e non sono legati alle tendenze del momento; di abiti che proteggono perché fatti di materiali resistenti al calore, all’acqua, al freddo; di abiti di fattura e taglio “maschili”, ma che vestono con agio sia donne che uomini.
Era stato il grande sarto giapponese Yohji Yamamoto a venire per primo ispirato, sin dagli anni ’80, dagli abiti degli “uomini del Ventesimo secolo” fotografati da Auguste Sander. Yamamoto era affascinato dalle immagini che il fotografo tedesco aveva raccolto di uomini e donne nei loro abiti da lavoro: non abiti alla moda, non abiti “a caso”, ma indumenti funzionali a una mansione, a un impegno, a una scansione temporale del giorno e della vita. E’ oggi questa stessa relazione con il tempo e con il proprio posto nel mondo che si ricerca, dopo averla perduta nel trionfo della precarietà. Paradossalmente, quanto più il lavoro manca, si disgrega, si smaterializza, tanto più si rafforza l’idea di un contenitore del corpo che richiami invece la materialità del lavoro, dell’opera, della manualità, di abiti che esprimano autenticità e forza.
Si adeguano le aziende del casual, i grandi marchi e alcuni stilisti più attenti, ma spesso sono aziende già specializzate in abiti da lavoro a lanciarsi in una produzione più ampia. L’azienda tedesca Acronym, ad esempio, nasce sin dagli anni ‘90 con l’idea di unificare stile e tecnologia, e oggi lancia collezioni che fanno il giro del mondo e della rete, attraverso la vendita online e le segnalazioni dei fashion-blogger. Giacche dotate di cerniere ad “alta velocità” brevettate per permettere l’apertura di una tasca o la fuoriuscita di un cappuccio. Pantaloni fatti di materiali praticamente indistruttibili, di taglio ampio e comodo. Borse, zaini e accessori, che sembrerebbero destinati a contenere il pranzo di un operaio da consumarsi nei pochi minuti di pausa o le salviettine per rinfrescarsi quando è concesso andare in bagno.
L’azienda inglese Casely Hayford basa invece la sua filosofia sulla figura dell’artigiano, il cui costume è influenzato un po’ dalla tradizione sartoriale inglese e un po’ dalla britannica anarchia. Autonomo e vagamente dandy, questo artigiano indossa cappotti asimmetrici in lana grigia, impermeabili verde militare e stivali allacciati a 12 fori. “La moda è normalmente ossessionata dall’idea dell’eterna giovinezza, ma ora sta cedendo il passo all’idea di una sorta di permanenza e consistenza” sostiene il fondatore Joe Casely-Hayford.
Anche Le Laboreur, un marchio francese, produce veri abiti da lavoro. Nella rielaborazione di moda, essi diventano quasi oggetti di culto in quanto emblemi di mestieri di grande forza e dignità, come il carpentiere o il tagliatore di pietre, oppure di tradizioni regionali e campagnole.
L’haute couture del workwear è ben rappresentata dalla stilista inglese Margaret Howell, secondo la quale “Gli abiti da lavoro sono abiti che hanno uno scopo”. Per la prossima estate Howell propone magliette a righe, giacche di twill di colore indaco, pantaloni di cotone pesante e giacconi chiusi da alamari.
Nel film “Tempi moderni” di Charlie Chaplin (1936), l’operaio Charlot che indossa una salopette azzurra e una maglietta bianca, a forza di compiere sempre gli stessi movimenti, diventa un automa impazzito, tanto ripetitivo e inadeguato da provocare con i suoi movimenti l’effetto comico, il riso degli spettatori. Non viviamo certo più ai tempi della fabbrica dell’operaio Charlot, eppure la moda per la quale il “Financial Times” ha recentemente utilizzato l’espressione “new labour” sembrerebbe riportarci proprio lì, tra le tute blu, le chiavi inglesi e gli ingranaggi in cui Charlot si alienava. Forse la moda riesce, a volte meglio della teoria, a svelare che anche l’attuale “post-fordismo”, che  vuol dire tecnologie, flessibilità e delocalizzazione, ritorna all’alienazione dei tempi e dei corpi, anche quando non una chiave inglese ha tra le mani l’operaio, ma una consolle computerizzata. Ed è da lì che la dignità del lavoro deve tornare protagonista: non basta però la moda a garantirlo.
Auguste Sander: "Uomini del ventesimo secolo"

Italian Style

Fashion as cultural translation

Orario di ricevimento 2011

Ricevo il Martedì dalle 10.00 alle 12.30 nel mio studio, Facoltà di Lingue e letterature straniere, via Garruba 6, IV piano.

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